lunedì 5 ottobre 2015

L'eco di Gianni


L'eco di Gianni
Racconto di Stefano Terraglia 
(Soggetto dell'omonimo cortometraggio) 

Le mie gambe non erano delle migliori in quell'anno, quasi volevano oltrepassare il loro limite per uno come me che era abituato a stare seduto sette ore al giorno dietro una scrivania dell'ufficio della mia azienda. L'aria costiera, invece, parzialmente ventilata, era quella di un'estate incerta accompagnata da un cielo parzialmente coperto, dove il sole pareva vergognarsi di guardare giù il mondo. Camminavo tra gente allegra, loro, immancabili prede dell'estate non si vergognavano come faceva quel sole tra le nubi, loro, reduci di malefatte invernali, con il petto abbronzato e le labbra morbide di burro di cacao, ignari delle mie vicissitudini, continuavano a farmi ombra. E via via che la gente passava lasciava le scie profumate di cocco, di cacao, essenze di creme che entravano nelle mie narici quasi volessero imporsi a dispetto dell'odore del mare. Camminavo sfumacchiando, discorde con tutti, discorde anche con il sole, infatti, il mio sguardo verso l'astro, ormai verso la volta del tramonto, era diffidente, così avrei voluto dirgli: “Ma chi te lo fa fare di prendertela così tanto”, invece non dissi niente. La mia tristezza non trovava conforto sul litorale, stava a metà strada tra il mare ed il cielo, precisamente sulla mia destra, sulle montagne Apuane. Infatti ero li per qualcosa di diverso, una semplice toccata e fuga in un universo che mi apparteneva fino a tre anni prima. Adesso miravo quel paesaggio montano dal litorale del Cinquale, avevo la faccia mesta, completamente fuori sincronia rispetto a quella della gente che andava su e giù sul litorale, ma non sapevo e non sentivo più niente da molto tempo. Le montagne parevano austere, tra le loro nubi, avrei creduto in loro se non mi avessero guardato con compassione, proprio come quei cipressi di Carducci, ma diversamente quelle montagne mi apparivano immutate e non cresciute. Proseguii il cammino sino all'interno, lasciando il litorale, camminai molto tra ville e villette sino alle macchie interne e ai campi soleggiati, fino a alle casupole a piè dei monti per terminare così sulla soglia della porta di quella vecchia casa che conoscevo bene e spesso mi aveva visto entrare, senza ritegno, vittima del mio insano egoismo. Suonai il campanello, una giovane donna mi aprì invitandomi ad entrare. “Ho bisogno di pernottare stasera e mangiare qualcosa” dissi. La casa pareva più un semplice appartamento che un luogo da pernottamento, lei sorrise, ma con un marcato velo di tristezza. Quella donna si chiamava Martina, viveva da sola e a quanto pareva ogni tanto si rendeva la vita meno difficile affittando una camera del suo appartamento, più che altro a turisti, lo faceva da circa tre anni. La casa consisteva in una cucina e due camere. Avevo fame e la donna non tardò a mettermi a tavola, non aveva un menù, stava preparando una semplice frittata, io la osservavo mentre ero seduto al tavolo in un angolo della cucina in attesa di essere servito mentre lei sbatteva insistentemente un uovo. Aveva assunto una posizione particolare, la mano destra che sbatteva l'uovo, il braccio sinistro lungo il corpo e la mano corrispondente protesa ad angolo retto, quasi volesse sforzarsi nella sua femminilità, quasi volesse mandare un messaggio, forse per un eventuale ed intenso dopo cena per il quale io non avevo nessun minimo interesse, stavolta. Divorai in compenso quella frittata e mentre mangiavo tentai un casto approccio: “Tu non mangi?”, le chiesi mentre lei se ne stava appoggiata al muro, “No no, mangia tu, io ho già mangiato”, poi sparì nella camera accanto. Più tardi ero solo con il mio sonno, sul letto matrimoniale della camera degli ospiti, li mi addormentai quasi subito. La mattina successiva appariva candida e pacata, la finestra dava sulle montagne ed io stavolta ero più desto del giorno prima con la voglia di sparire e raggiungere le cave di marmo a piedi. Martina entrò in camera mentre io ero ancora svestito, “Oh! Mi dispiace, torno dopo, volevo sistemare la stanza”, stavolta il mio sguardo non era quello della sera prima, stavolta avrei dovuto compiere qualcosa di più, così mi avvicinai e tentai un abbraccio, ma lei mi disse, respingendomi un po': “Sono stata cattiva ad entrare in stanza all'improvviso?”, La guardai intensamente e le risposi: “ Cattivissima”. D'un tratto la riversai sul letto ed alzatole la sottana iniziai a sculacciarla affettuosamente, lei rideva divertita come una bambina capricciosa, a me invece una lacrima stava solcando il mio volto, inconsueta, ma motivata ancora dal mio turbamento, dalle mie emozioni, dal fatto che avevo disertato la mia convinzione di non tornare più in quella casa. Adesso stavo percorrendo un sentiero che portava alle cave di marmo su quelle montagne Apuane il sole filtrava tra i rami, quasi concedendosi di più di quanto si fosse concesso sino ad allora e pareva illuminare sin troppo quelle zone ed io non ero affatto contento di quella luce così violenta che mal si addiceva alle circostanze. Arrivato al bordo delle cave, leggermente assorto nei miei pensieri rivolsi il guardo sulle pendici scavate, bianche, riflettevano tutta la violenza del sole di Giugno, mi feci coraggio ed iniziai a gridare: “Gianni!” Ovunque quel grido pareva risuonare, infatti l'eco fu pronta a sopraggiungere: “...anni...anni”, un grido disperato, quasi volessi riesumare da quelle cave una persona, quel giovane cavatore con il quale avevo condiviso anni di lavoro insieme, mio fratello. Le vecchie case di Antona, dove ero nato e vissuto, da dove avevo visto vallate desolate, dove gli inverni segnavano i volti degli uomini e delle donne che non avrebbero dovuto mai morire, da dove il pianto disperato di mia madre quel giorno maledetto irrompeva nel tardo pomeriggio di un Giugno, tre anni prima, cordoglio straziante, una volta appresa la notizia della morte di Gianni. Gianni morì mentre stava cavando il marmo, tra quelle lastre gravose, tra le braccia possenti degli altri cavatori che invano tentarono di salvarlo, il suo sorriso rivolto verso il sole bianco, verso quella luce accecante, ed io di nuovo: “Gianni!”. L'eco sembrava la sua voce, così Gianni pareva ritornare per un momento a cavallo del vento, con la sua canottiera azzurra, con il suo cappello col la visiera girata verso la nuca, con i suoi grandi occhi scuri. “Sono qua!”, eccolo che tornava, seppur con leggero ritardo, “Sono qua e ti vedo sai? Dai, fatti forza, falle di nuovo compagnia come hai sempre fatto...adesso io so, so tutto fratello mio”. Il mio singhiozzo, stremato dal groppo alla gola, incontrollabile, inevitabile, era la risposta al suono della sua voce. Mi rimisi in cammino e tornai dalla donna, al mio arrivo l'abbracciai con ardore, ma stavolta l'abbraccio era un'ambasciata proveniente dal cielo. “Come stai adesso, stai meglio?”, le dissi mentre mi stava lavando la testa, lei non rispose seguitava ad intingere le mani tra i miei capelli insaponati. “Mi ricordi il passato”, le dissi ancora cercando le sue parole a conforto delle mie colpe. “Ti aspettavo sai”, finalmente mi rispose con tono dolcissimo. Mentre mi asciugava la testa con un asciugamano, mi guardò intensamente negli occhi, “Hai gli stessi occhi di Gianni” e concluso lo sguardo intenso, così vicini, ci baciammo. “Martina io parto, vado in Australia, ho un'offerta di lavoro importante, non posso rinunciare, vieni via con me” Martina raggiunse la finestra, poi voltandosi verso di me mi disse dolcemente, ma con tono sicuro: “Non sono pronta, so che lui tornerà, un giorno busserà a questa porta e verrà a prendermi” Me ne andai così, come ero venuto, con la voce di mio fratello che dalle montagne ancora mi scuoteva dentro, con lo scempio nel cuore. Martina tornò a chiudere la finestra e lentamente si sedette sul letto.