Navette silenziose attraversano le strade lastricate, tra palazzi rinascimentali rinforzati con nanotecnologie e tetti di tegole rosse punteggiati da pannelli solari invisibili. Sotto la Cupola del Brunelleschi, che continua a dominare la città come un respiro di pietra, il professor Vittorio Bardi, fisico teorico all’Università di Firenze, scopre per caso un varco verso universi paralleli.
Ogni universo ha una Firenze diversa: una città sommersa dall’acqua, una invasa dalle piante, una dove la tecnologia ha ridefinito ogni aspetto della vita. Ma ogni attraversamento lascia una traccia, e qualcosa, oltre il varco, inizia a osservare Vittorio e il nostro mondo.
“Il Varco di Firenze” è un’unica storia di fantascienza pubblicata a puntate qui su “Cronache dal Futuro”.
Questa storia è generata con l’assistenza dell’intelligenza artificiale di ChatGPT e guidata da Stefano Terraglia, che ha definito l’ambientazione, la trama e la direzione creativa di questo progetto.
Ad ogni puntata, scopriremo insieme come la scoperta del varco metterà in crisi le certezze del professor Bardi e della sua città, in un viaggio che mescola scienza, scelte morali e la bellezza fragile di Firenze.
"Labirinti Emotivi" è un'opera che ho creato per mettere in luce la complessità e la varietà di emozioni che hanno attraversato la mia vita. In queste pagine condivido racconti, riflessioni e poesie che mi sono cari, un viaggio tra esperienze personali e momenti di introspezione che spero possano toccare anche il cuore e l’anima di chi legge. Ho suddiviso il libro in quattro sezioni principali, ognuna con una voce unica.
Nella sezione "Risonanze dell'anima", esploro la profondità interiore, interrogandomi sul silenzio e sulla crescita personale. È un viaggio intimo, una riflessione sul significato dell’anima e della sua dimensione più nascosta, con poesie come "Anima immersa nel silenzio" che mirano a suscitare una quieta meditazione. "Voci dal cuore" invece si concentra sui rapporti umani e le emozioni che ci legano agli altri, con racconti come "Il babbo" che tentano di esprimere la bellezza e la complessità dei legami familiari.
In "Impronte nel tempo", rifletto su come il passato influenza ogni nostro passo, il presente e persino le aspettative per il futuro. Infine, "Riflessi del delirio" è un’immersione nelle contraddizioni della mente, tra pensieri e situazioni che sfidano la logica, ma che rivelano sfumature inaspettate.
Con questo libro desidero offrire ai lettori uno spazio di riflessione, un invito a guardarsi dentro e a riconoscere il valore di ogni emozione. "Labirinti Emotivi" è per me un’altra forma per catturare quelle sfumature della vita che spesso ci sfuggono, un luogo dove poter esplorare e forse trovare risposte. Grazie a chi vorrà dedicare un po’ del proprio tempo a questa raccolta.
Il libro è disponibile su Amazon sia in formato cartaceo che ebook
E c'era il sole, tanto caldo ed eravamo tanti, il mare era immenso innanzi a noi. Ci avevano detto che di la c'era una speranza, c'era la stessa terra fatta di uomini, però ballavano, mangiavano ed avevano così tanti soldi che potevano dare spiccioli alla gente povera nelle strade. Ci avevano detto che potevamo lavorare e studiare, che gli ospedali erano gratis, che i vestiti costavano poco e che la gente li buttava in cassonetti, così, senza rivenderli. Ci avevano detto che se uno era moribondo lo portavano all'ospedale e veniva curato gratuitamente. Ci avevano detto che c'era un Papa buono e caritatevole...che la gente faceva grandi spettacoli in televisione e concerti con migliaia di persone. Così mio padre mi aveva portato insieme alla mamma su quella spiaggia, dopo essersi spogliato di ogni piccolo nostro avere e con la speranza abbiamo atteso tre giorni. E c'era il sole, tanto caldo ed eravamo in tanti, il mare era immenso innanzi a noi. Salimmo tutti e tre sul barcone per raggiungere un'altra terra, ma sempre la solita di questo mondo. Adesso che penso al mare penso agli occhi torbidi di mio padre, mentre tentava disperatamente di aggrapparsi a ciò che rimaneva di quella barca. Ricordo delle mani pesanti ed un uomo gigante vestito di giallo che mi afferrò per un braccio. Mia madre con la pancia gonfia di acqua e gli occhi rivolti al cielo. Sono passati dieci anni, adesso sono maggiorenne e sto finendo l'istituto tecnico. Suono in un gruppo RAP e ed ho le stesse mani grandi di mio padre e la bocca di mia madre con il suo bel vestito colorato, il più bello che avevi mamma per il giorno della partenza.
Ciao amore, ti sto pensando, sono una donna felice, affaticata, stanca, ma tanto innamorata.
Sto lavorando da diverse ore, sento le gambe come piombi piantati in terra. Ho tanta voglia di te. Arriverà anche stasera, mi avvolgerò stretta al tuo petto, poi come sempre ascolterò il tuo respiro mentre prendi sonno. Ho voglia di viverti amore mio, io voglio far presto, perché sei la mia vita, ogni mio intenso pensiero, il mio grande sogno ad occhi aperti.
Il lavoro è molto, è impossibile fermarsi, pensa che non riesco neanche a raggiungere il gabinetto, loro ci controllano e vogliono vederci lavorare, continuamente, senza sosta.
Questo pomeriggio non passa mai, ma la tua donna è come un cavallo lanciato al galoppo, adora la vita e sa come cavalcarla insieme a te.
Torneremo sudati e stanchi, non fa niente, ho già la tinozza pronta e per noi due sarà il preludio di un'altra tenera serata che vivremo insieme, nella nostra pelle.
Amore mio sto soffocando, un fumo acre e insopportabile ci ha fatto lasciare le macchine.
Ci sono tante fiamme, amore, vita mia, questo è un piano alto, siamo in tante e non riusciamo a scendere.
Stiamo gridando aiuto...adesso devo lasciarti, provo a fuggire.
Amore, sono sulla finestra al nono piano, New York è immensa da quassù.
Non resisto più e adesso le fiamme mi stanno raggiungendo.
Provo a volare da te, vieni a prendermi, io ti amo.
New York
Società: Triangle Shirtwaist Company
Incendio del 25 Marzo 1911
Morirono 123 donne e 23 uomini.
Dedicato a tutte le donne e uomini vittime di infortuni sul lavoro.
Mi impressionò il silenzio e qualche grida in lontananza, tripudianti, parevano degli "evviva" sommersi dal freddo. Ed era freddo, saranno stati si e no una decina di gradi al di sotto dello zero. Silenzio e ghiaccio. Nessun commento oltre quelle grida in lontananza. Avevo lasciato la mia abitazione velocemente, dovevo raggiungere il circolo, li mi avrebbe atteso Fiorenzo. Ero completamente incappucciato nel mio giubbotto, nascondendo il volto all'inverno, mentre il vento gelido calcava screzi sul mio volto. Erano passati soltanto pochi minuti e la bufera di sottili frammenti di ghiaccio si intensificava sino a costringermi a fermarmi sotto un piccolo porticato. Cercai, nonostante i guanti di lana, di scaldarmi le mani battendole l'una con l'altra, mentre la strada era immersa in un vortice di vento e neve che mi impediva di vedere lontano, tranne alcune sagome che attraversavano la strada in lontananza. Un attimo dopo una mano mi afferrò la spalla:
"Devi andartene da qui", ebbi un sussulto e poi caddi nel panico, mi voltai e vidi il volto di una donna:
" Stai tranquillo, ti conosco di vista, ti ho visto spesso al lago", aveva il naso leggermente sanguinante, biondiccia, le labbra screpolate, ma io sapevo che la situazione era gravissima, avrei dovuto raggiungere Fiorenzo.
"Anche io ti ho vista, mi aspetta un amico, ti ringrazio, mi tolgo da qui...", ma lei ribadì dicendo che era meglio se andassi da tutt'altra parte.
"Mi dici come mai non posso andare verso il circolo?" Lei tirò fuori una mappa sgualcita e mi indicò una zona che io conoscevo bene.
"Loro sono qui e saranno da queste parti tra cinque minuti al massimo, non lasceranno piú traccia di niente al loro passaggio, ti conviene venire con me".
Era convincente, per un attimo rimasi accecato dal suo sguardo, dai suoi due grandi occhi azzurri. Aveva la testa coperta da un grande cappello di lana, una grossa sciarpa bianca, un cappotto e gli scarponi anfibi, mentre il fumare della condensa del suo respiro investiva in pieno il mio volto.
Iniziai a correre con lei verso una discesa che conduceva al casolare del Navicello. Li ci fermammo, affannavamo accovacciati dietro un'auto abbandonata, ci guardammo intensamente, come per scoprirci a vicenda.
"Sei stanca, fermiamoci un attimo", le dissi dolcemente cercando di scoprirle gli occhi coperti da un ciuffo di capelli.
"Non é un'ottima idea", disse, mentre il suo respiro si stava stabilizzando, cosí, mi tese la mano:
"Senti come batte il polso", misi il mio dito indice sotto i suoi guanti, poi le strinsi la mano per rilasciarla ancora in un dolce e affettuoso contatto.
"Devo togliermi i guanti?" mi chiese osservandomi dolcemente.
"E' freddo lascia stare", le risposi, non nascondendo una certa voluta indifferenza.
"Dai muoviamoci, raggiungiamo il boschetto, li non ci potranno vedere". La corsa fu abbastanza lunga da costringerci, almeno un paio di volte, a fermarci per riprendere respiro. Arrivammo al boschetto e lei cadde per terra stanca e stremata nei pressi di un castagno.
"Ci fermiamo qui", balbettava ansimando.
"Si", le risposi strozzato dall'affanno. Anche io mi buttai per terra, su quel terriccio ghiacciato, accanto a lei, adesso, ambedue guardavamo il cielo bianco.
In lontananza un clamore di marcia e una serie di spari, noi due, supini, incontravamo adesso i nostri volti di lato.
"Sei stanca?"
"No. Ti chiami Dimitri vero?"
"Si e tu?"
"Veruska"
"Lo sai che sei bella?"
"Mi fai arrossire"
"E' freddo, sei giá rossa", le dissi sorridendo.
"Non possiamo stare qui per molto, potrebbero vederci"
"No, non credo". Mi girai verso di lei e le accarezzai il volto, era molto freddo. Lei mi bació le dita ed io incontrai la sua bocca con la mia. Ci baciammo a lungo per poi restare vittime dei nostri dolci sensi quasi stregati dal freddo ed incuranti di quello che stava accadendo. Le abbassai i pantaloni e facemmo l'amore, lei era bellissima e si struggeva tra le mie braccia comunicandomi tutta la sua sincera passione.
Adesso era giunta l'ora di riprendere la marcia, sarebbero passati anche di li, avrebbero lasciato terra bruciata. Percorremmo i sentieri del boschetto che conducevano verso le statue delle sfingi, lí vicino vi era una piccola scalinata, Veruska scivolò su una lastra di ghiaccio procurandosi un gran dolore alla caviglia.
"Ti fa molto male?" le chiesi avvicinandomi per aiutarla
"Abbastanza, ma non posso farci niente, non possiamo fermarci"
Le tolsi lo scarpone dopo averla fatta sedere sui gradini con l'intenzione di massaggiarle la caviglia, ma appena iniziato questo dolce atto di tenera assistenza, ruppe l'incanto un grido marziale trasformando la favola in improvviso terrore: "ALT!" Uno slancio di entrambi verso il basso, Veruska correva senza uno scarpone, zoppicando, io per un attimo ho pensato soltanto a me stesso, dimenticandomi di lei e del nostro incanto, correvo all'impazzata mentre da dietro iniziarono a sparare.
"Aspettami Dimitri, aiuto!", urlava disperatamente. Non mi voltai, continuai a correre, mi tuffai di lato alla scalinata, sprofondando in una siepe e rotolando giù nel sentiero in basso, coperto dalla vegetazione. Dall'alto le grida:
"L'abbiamo perso, procediamo, non c'é tempo da perdere"
Qualche minuto poi si allontanarono, ma io non sentivo più la voce di Veruska.
Dopo un'ora uscii allo scoperto. Verusca era distesa immobile sulla scalinata senza lo scarpone. Mi avvicinai, lei mi guardava con i suoi grandi occhi azzurri, era ferita, il suo volto era freddo, le rimisi lo stivale e cercai di trascinarla dietro la siepe. Le mie mani erano sporche di sangue mentre, cercavo di medicarle velocemente quelle ferite con tutte le opzioni che avevo a disposizione, Veruska adesso stava meglio. Tentai di fare di nuovo l'amore con lei, anche perché oramai sapevo di aver perso la partita, tentai di riprendere possesso di lei calandole i pantaloni, ma un messaggio mi apparve davanti allo schermo:
"OGNI GIOCATORE PUO' POSSEDERE OGNI DONNA DEL GIOCO UNA SOLA VOLTA, PER POSSEDERLA PIU' DI UNA VOLTA E' NECESSARIO SCARICARE LA VERSIONE COMPLETA DEL GIOCO"
Le mie gambe non erano delle migliori in quell'anno, quasi volevano oltrepassare il loro limite per uno come me che era abituato a stare seduto sette ore al giorno dietro una scrivania dell'ufficio della mia azienda. L'aria costiera, invece, parzialmente ventilata, era quella di un'estate incerta accompagnata da un cielo parzialmente coperto, dove il sole pareva vergognarsi di guardare giù il mondo. Camminavo tra gente allegra, loro, immancabili prede dell'estate non si vergognavano come faceva quel sole tra le nubi, loro, reduci di malefatte invernali, con il petto abbronzato e le labbra morbide di burro di cacao, ignari delle mie vicissitudini, continuavano a farmi ombra. E via via che la gente passava lasciava le scie profumate di cocco, di cacao, essenze di creme che entravano nelle mie narici quasi volessero imporsi a dispetto dell'odore del mare.
Camminavo sfumacchiando, discorde con tutti, discorde anche con il sole, infatti, il mio sguardo verso l'astro, ormai verso la volta del tramonto, era diffidente, così avrei voluto dirgli: “Ma chi te lo fa fare di prendertela così tanto”, invece non dissi niente. La mia tristezza non trovava conforto sul litorale, stava a metà strada tra il mare ed il cielo, precisamente sulla mia destra, sulle montagne Apuane. Infatti ero li per qualcosa di diverso, una semplice toccata e fuga in un universo che mi apparteneva fino a tre anni prima. Adesso miravo quel paesaggio montano dal litorale del Cinquale, avevo la faccia mesta, completamente fuori sincronia rispetto a quella della gente che andava su e giù sul litorale, ma non sapevo e non sentivo più niente da molto tempo.
Le montagne parevano austere, tra le loro nubi, avrei creduto in loro se non mi avessero guardato con compassione, proprio come quei cipressi di Carducci, ma diversamente quelle montagne mi apparivano immutate e non cresciute. Proseguii il cammino sino all'interno, lasciando il litorale, camminai molto tra ville e villette sino alle macchie interne e ai campi soleggiati, fino a alle casupole a piè dei monti per terminare così sulla soglia della porta di quella vecchia casa che conoscevo bene e spesso mi aveva visto entrare, senza ritegno, vittima del mio insano egoismo. Suonai il campanello, una giovane donna mi aprì invitandomi ad entrare. “Ho bisogno di pernottare stasera e mangiare qualcosa” dissi. La casa pareva più un semplice appartamento che un luogo da pernottamento, lei sorrise, ma con un marcato velo di tristezza. Quella donna si chiamava Martina, viveva da sola e a quanto pareva ogni tanto si rendeva la vita meno difficile affittando una camera del suo appartamento, più che altro a turisti, lo faceva da circa tre anni. La casa consisteva in una cucina e due camere. Avevo fame e la donna non tardò a mettermi a tavola, non aveva un menù, stava preparando una semplice frittata, io la osservavo mentre ero seduto al tavolo in un angolo della cucina in attesa di essere servito mentre lei sbatteva insistentemente un uovo. Aveva assunto una posizione particolare, la mano destra che sbatteva l'uovo, il braccio sinistro lungo il corpo e la mano corrispondente protesa ad angolo retto, quasi volesse sforzarsi nella sua femminilità, quasi volesse mandare un messaggio, forse per un eventuale ed intenso dopo cena per il quale io non avevo nessun minimo interesse, stavolta. Divorai in compenso quella frittata e mentre mangiavo tentai un casto approccio: “Tu non mangi?”, le chiesi mentre lei se ne stava appoggiata al muro, “No no, mangia tu, io ho già mangiato”, poi sparì nella camera accanto.
Più tardi ero solo con il mio sonno, sul letto matrimoniale della camera degli ospiti, li mi addormentai quasi subito.
La mattina successiva appariva candida e pacata, la finestra dava sulle montagne ed io stavolta ero più desto del giorno prima con la voglia di sparire e raggiungere le cave di marmo a piedi. Martina entrò in camera mentre io ero ancora svestito, “Oh! Mi dispiace, torno dopo, volevo sistemare la stanza”, stavolta il mio sguardo non era quello della sera prima, stavolta avrei dovuto compiere qualcosa di più, così mi avvicinai e tentai un abbraccio, ma lei mi disse, respingendomi un po': “Sono stata cattiva ad entrare in stanza all'improvviso?”, La guardai intensamente e le risposi: “ Cattivissima”. D'un tratto la riversai sul letto ed alzatole la sottana iniziai a sculacciarla affettuosamente, lei rideva divertita come una bambina capricciosa, a me invece una lacrima stava solcando il mio volto, inconsueta, ma motivata ancora dal mio turbamento, dalle mie emozioni, dal fatto che avevo disertato la mia convinzione di non tornare più in quella casa.
Adesso stavo percorrendo un sentiero che portava alle cave di marmo su quelle montagne Apuane il sole filtrava tra i rami, quasi concedendosi di più di quanto si fosse concesso sino ad allora e pareva illuminare sin troppo quelle zone ed io non ero affatto contento di quella luce così violenta che mal si addiceva alle circostanze.
Arrivato al bordo delle cave, leggermente assorto nei miei pensieri rivolsi il guardo sulle pendici scavate, bianche, riflettevano tutta la violenza del sole di Giugno, mi feci coraggio ed iniziai a gridare: “Gianni!” Ovunque quel grido pareva risuonare, infatti l'eco fu pronta a sopraggiungere: “...anni...anni”, un grido disperato, quasi volessi riesumare da quelle cave una persona, quel giovane cavatore con il quale avevo condiviso anni di lavoro insieme, mio fratello.
Le vecchie case di Antona, dove ero nato e vissuto, da dove avevo visto vallate desolate, dove gli inverni segnavano i volti degli uomini e delle donne che non avrebbero dovuto mai morire, da dove il pianto disperato di mia madre quel giorno maledetto irrompeva nel tardo pomeriggio di un Giugno, tre anni prima, cordoglio straziante, una volta appresa la notizia della morte di Gianni.
Gianni morì mentre stava cavando il marmo, tra quelle lastre gravose, tra le braccia possenti degli altri cavatori che invano tentarono di salvarlo, il suo sorriso rivolto verso il sole bianco, verso quella luce accecante, ed io di nuovo: “Gianni!”. L'eco sembrava la sua voce, così Gianni pareva ritornare per un momento a cavallo del vento, con la sua canottiera azzurra, con il suo cappello col la visiera girata verso la nuca, con i suoi grandi occhi scuri. “Sono qua!”, eccolo che tornava, seppur con leggero ritardo, “Sono qua e ti vedo sai? Dai, fatti forza, falle di nuovo compagnia come hai sempre fatto...adesso io so, so tutto fratello mio”. Il mio singhiozzo, stremato dal groppo alla gola, incontrollabile, inevitabile, era la risposta al suono della sua voce.
Mi rimisi in cammino e tornai dalla donna, al mio arrivo l'abbracciai con ardore, ma stavolta l'abbraccio era un'ambasciata proveniente dal cielo. “Come stai adesso, stai meglio?”, le dissi mentre mi stava lavando la testa, lei non rispose seguitava ad intingere le mani tra i miei capelli insaponati. “Mi ricordi il passato”, le dissi ancora cercando le sue parole a conforto delle mie colpe. “Ti aspettavo sai”, finalmente mi rispose con tono dolcissimo. Mentre mi asciugava la testa con un asciugamano, mi guardò intensamente negli occhi, “Hai gli stessi occhi di Gianni” e concluso lo sguardo intenso, così vicini, ci baciammo.
“Martina io parto, vado in Australia, ho un'offerta di lavoro importante, non posso rinunciare, vieni via con me” Martina raggiunse la finestra, poi voltandosi verso di me mi disse dolcemente, ma con tono sicuro: “Non sono pronta, so che lui tornerà, un giorno busserà a questa porta e verrà a prendermi”
Me ne andai così, come ero venuto, con la voce di mio fratello che dalle montagne ancora mi scuoteva dentro, con lo scempio nel cuore. Martina tornò a chiudere la finestra e lentamente si sedette sul letto.
Renato si avvió verso il piccolo bar che per anni lo aveva servito nella notte, era l'unico bar che rimaneva aperto fino alle due del mattino, dove una ragazza oramai sposa con due figli gli preparava il cappuccino di fine lavoro. Renato lavorava di fronte, come libero professionista, da anni prestava la sua voce ai cartoni animati, la sua voce dalle mille sfaccettature, ora grossa e prepotente del lupo cattivo, ora dolce e sensibile del lupo buono. Migliaia di metri di pellicola doppiati con la sua voce insieme con altri colleghi. La sua caratteristica peró era quella degli effetti sonori; fischi, sibili, espressioni, urli, era uno specialista in questo, con la sua folta barba grigia e la sua fronte spaziosa, con gli occhi di un bimbo mai cresciuto con i modi di un galantuomo.
Quella notte non era felice, non si trattenne come il solito a parlare con la donna del bar, anzi non finí neanche il cappuccino. Renato si avvió verso casa, finiva sempre di lavorare tardi, ma era piú stanco del solito, anche perchè le delusioni stancano molto di piú, ti lasciano le braccia e le gambe piú pesanti del solito. Aveva terminato con quella sera l'ultima data prevista dal contratto con quello studio, con quella societá che lo aveva campato per oltre venticinque anni. Avrebbe voluto lavorare ancora un po', anche perchè aveva sempre prestato la sua voce con passione e dedizione con un amore sviscerato per quel mestiere, dimostrando un'eccepibile serietá e bravura. Non poteva piú lavorare e avrebbe dovuto rimettersi in vendita sulla piazza da solo, forse era anche troppo giovane, cinquantatrè anni, d'altronde non sapeva fare altro.
Era appena arrivato a casa, si tolse la giacca e si rilassó di schianto sul divano, ma non potette fare a meno di dare di nuovo un occhiata a quella lettera che un assistente di studio gli aveva consegnato prima della fine della seduta di registrazione, una lettera da parte della societá:
Gent.mo Signor Renato Urbani,
In relazione agli ultimi accordi aziendali relativi all'acquisto di nuovo materiale tecnico per la post-produzione, abbiamo provveduto all'acquisto di un sistema computerizzato per la sonorizzazione del materiale girato. Tale sistema prevede un fornitissimo archivio di campioni sonori utili per la gestione degli effetti dei cartoni animati.
Questo sistema elettronico andrá a sostituire il lavoro, da noi giudicato dispendioso, che era effettuato in fase di doppiaggio dal doppiatore e dal rumorista.
In seguito a questo abbiamo dovuto rivedere alcuni contratti stipulati con i doppiatori, ed abbiamo ritenuto poco convenevole una nuova stipulazione.
Con profondo dispiacere siamo costretti a dover interrompere il rinnovo del suo contratto provvedendo al piú presto alla liquidazione delle competenze previste.
La ringraziamo per il suo rapporto continuo che ha avuto con questa societá, con la promessa di prendere in considerazione la sua ottima professionalitá per eventuali nostre iniziative prossime.
La mattina dopo, sul divano, fu raggiunto dal suo bambino, cinque anni, avuto tardi da una moglie bellissima. Il bimbo lo guardó con gli occhi supplichevoli:
-Papá, raccontami la favola del lupo buono-
Renato sorrise, gli occhi gli s'illuminarono, si alzó, e cominció a recitare talmente bene che il bimbo decise di rinnovargli il suo piccolo contratto d'amore.
Carlo aveva l'aspetto goffo, con le grosse spalle, occhiali da lettura e nel suo angolo dove per anni non aveva dato fastidio a nessuno continuava a rimanerci, imperterrito, alla conquista di chissà cosa. Circondato da libri e dalla sua lampada da tavolo che illuminava a malapena un quarto di quella vecchia scrivania, lì, per molti anni, aveva intriso d'inchiostro tutta quella carta che giaceva in fascicoli, nei numerosi cassetti la intorno.
Non era nessuno, o meglio, non era mai riuscito ad essere nessuno, eppure, nel suo essere niente, sognava le luci di un palcoscenico che non arrivava mai.
Adesso, senza neanche più quei capelli di donna che lo avvolgevano durante la notte.
Lei se n'era andata cinque anni fa insieme ad un tipo pieno di soldi. Carlo si era sempre rifiutato di conoscere quel tipo, di indagare in merito, era soltanto molto addolorato. Quel dolore lo percuoteva più che altro la notte, quando la luna filtrava i suoi tenui raggi attraverso le persiane di quella camera, quando sul cuscino, quella luce bluastra, non accarezzava più il bellissimo corpo di Jessica.
Conquistò la sua venere dieci anni fa, tra le risate scettiche di quei quattro amici oramai dispersi, quando gli sussurravano che sarebbe durata poco, lei, incuteva battute interessate, sembrava un bocconcino di pane in mezzo ad una piazza di piccioni. La bella e la bestia, canticchiavano sulla soglia del bar, ma anche lui era scettico sin dall'inizio. Sarebbe stata una fantastica avventura, si diceva spesso tra se, quando la vedeva passeggiare, con quegli abiti succinti ed il visetto capriccioso. Sarebbe stata un'avventura degna di un bellissimo Re che ha incontrato la sua principessa, ma lui, non era né bellissimo, né tanto meno un Re.
Cercò il primo anno, però, di assomigliare ad un Re di periferia, armato di carta di credito, con un lavoro sicuro in una struttura pubblica, l'utilitaria appena lavata, con il profuma ambienti al cocco attaccato allo specchietto retrovisore interno. Le cene con lei in pizzeria, inebriate dal quel vin bianco alla spina, e poi, per finire, fuggire via veloci, incuranti dell'ora tarda, tra i cori di grilli, a finestrini aperti, nelle campagne vicine, a fare l'amore, e poi, la sua principessa tornava a casa.
La passione per lo scrivere, per il cinema e per la fotografia non stentarono ad esprimersi intorno a quel magnifico volto, e proprio di lei, conservava più di tremila scatti fotografici.
Non era più tornata, affascinata forse dall'illusione di una vita più agiata, stretta da un corpo d'uomo abbronzato, curato, in una casa senza quell'odore stagnante di cipolla soffritta che rimaneva prigioniero di quelle giallognole mura con poche finestre. Dalle sue mura di casa, Carlo, era avvolto come da un mantello protettivo, sia d'inverno sia d'estate. Quel corpo un po' tozzo, con la sua testa sempre abbassata, il niente del niente, mimetizzato in quella società che lo ha mortificato quando tentò di presentare i suoi scritti a qualche concorso, ma di cosa scriveva, be', lui creava da sempre.
Creava di racconti, creava di soggetti, creava spesso per il cinema che mai aveva girato un metro di pellicola per lui, creava d'immagine attraverso un computer e si commuoveva quando finiva le sue opere ed aspettava, ebbene aspettava che lei tornasse, che tornasse per sempre da lui.
Erano passati cinque anni, ma quando arrivava la notte lui non si dava pace, stringeva il cuscino tra i denti, si lasciava rotolare nel letto e ad ogni rumore d'auto che sopraggiungeva da fuori lui poi immaginava un possibile suono di campanello, il suo ritorno di notte: "Se la mia scelta sarà sbagliata tornerò a casa, lo farò di notte, così sarai sicuro che sono io, tu sceglierai se aprirmi o meno" così lei disse. Una notte, dopo essere stato per ore ed ore a scrivere, decise di andare a letto, e più tardi, mentre costruiva le sue illusioni prima di prendere sonno, la sua fervida immaginazione si materializzò e come per incanto, il campanello suonò in piena notte. Stentava a credere a quel suono ed era paralizzato da un ansia che gli faceva ballare il cuore in gola a limite della sopportazione. Lui in pigiama corse al citofono, e, balbettando, domandò, chi era, nessuno. Nessuna risposta. Ancora domandò chi era, e non ottenendo riposta, si precipitò verso l'ascensore per scendere giù nell'ingresso del palazzo forse dal citofono non era stato capito forse Jessica, era tornata, ma non rispondeva al citofono. Arrivato a piano terra si diresse velocemente ansimando verso il portone, nessuno. E fuori? Nessuno. Si guardò intorno, non voleva cedere a quell'improvvisa delusione così decise di cercare ancora di più, attraversò velocemente la strada intontito, accecato, si, accecato anche dai fari di una macchina che sopraggiungeva velocemente e che lo travolse. Erano le tre e trentacinque. Per un attimo sullo sfondo della strada vide chi aveva suonato nel cuore della notte, un gruppo di ragazzetti ubriachi, si divertivano a suonare alcuni campanelli per poi scappare, ma lui era per terra, mentre la vita gli sfuggiva per sempre di mano, in pigiama, vittima di una scorribanda tra le più ingenue, beffeggiato e condannato a morte da un gruppo di ragazzetti bontemponi.
Mentre un uomo tentava di porgli soccorso, Carlo se n'andava per sempre, senza aver concluso un bel niente.
Lei arrivò mezz'ora più tardi.
Passeggiavo con mia moglie a braccetto, lungo quella strada, era molto freddo ed indossavamo abiti molto pesanti. Mia moglie camminava alla mia sinistra, il nostro fiato evaporava in quella rigida atmosfera invernale e camminando ci scambiavamo qualche fugace sorriso. Tra di noi un dolce silenzio, lei era sempre stata un tipo silenzioso, con i suoi capelli biondini, eternamente giovane, col suo piccolo volto rosa dalla pelle delicatissima e quasi sempre arrossata dal freddo. Io ero avvolto dal mio grande cappotto oramai vecchio di oltre dieci anni e lei indossava un vestito marrone con un collo di pelliccia. Ambedue eravamo avvolti da una sciarpa, lei indossava il suo cappellino di lana ed io avevo il colbacco scuro, anch'esso molto vecchio, ma ancora utile.
Era domenica mattina e non si lavorava, sposati da dodici anni, ogni domenica facevamo la stessa passeggiata. Purtroppo senza figli, soli, in un'esistenza fatta di sorrisi e carezze, ambedue figli unici senza più genitori. La nostra piccola, ma calda casa, le nostre tre piccole stanze, la nostra cucina oramai vissuta nella consuetudine giornaliera e nel rispetto dell'orario del pranzo e della cena, l'eterno odore di cipolla soffritta. Le nostre sedie, in legno, impagliate e ben conservate grazie alla meticolosità di mia moglie, mostravano, nonostante tutto, i segni di dieci anni di uso giornaliero, la paglia stava cedendo sfogliandosi. Il nostro piccolo bagno con la saponetta rosa sul lavandino, ed il nostro salottino con il divano in stoffa verde, ancora rivestito da un telo di colore avorio con i girasoli disegnati da una vecchia amica.
Assaporavamo ogni domenica mattina la semplicità del nostro piccolo quartiere popolare, con quella strada grigia che tramite un ponte attraversava il fiume uscendo dagli ultimi isolati. La ringhiera di quel ponte, di colore marrone, fredda, l'accarezzavo quasi fosse un percorso di mano obbligato, così ne sentivo ogni volta le screpolature dello smalto deteriorato dal tempo. Era comunque una ringhiera di ferro massiccio, costruita per non distruggersi mai, per non essere mai sostituita. La nebbia, che nei nostri lunghissimi inverni regnava perenne, mi impediva, dal ponte, di notare l'enorme distesa campestre che si poteva mirare ogni volta che era sereno. Il nostro quartiere, la nostra vita, il nostro mondo con le nostre abitudini, che davano a me e a mia moglie una sicurezza ed una serenità incredibile. Al ritorno da quella passeggiata era sempre l'ora del pranzo, e la domenica, cucinavamo la carne, due belle fette di carne ed una minestra di verdure, poi la frutta ed il dolce fatto con le uova, buonissimo, che lasciava fino a sera quel profumo di vaniglia per tutta la casa. Il pomeriggio ascoltavamo la nostra radio, coricati sul divanetto, con il programma di musiche popolari, lei con il suo capo biondo reclinato su di me nel suo leggero sonno, con la pelle profumata di saponetta, io con le sue mani nelle mie, le sue piccole mani, così esili, ma provate dal tempo e dal bucato fatto a mano nella piccola vasca da bagno, quel bucato che fresco ogni giorno indossavo.
Quel giorno, come mille altri, assaporavamo i nostri piaceri, come per rito, nell'essenza di una vita semplice, ma sicura, nel calore del nostro piccolo grande mondo. Eravamo felici e complici nel degustare ogni cosa, dal piccolo quadretto con le piramidi sistemato nell'ingresso, al dolce della domenica.
Ma più che altro vi era la sicurezza di avere un lavoro che ci teneva impegnati tutti i giorni e l'essere coscienti che quel lavoro non era una condizione, ma una partecipazione attiva. Il nostro lavoro, la nostra piccola casa, la nostra vita.
Oggi tutto questo è un'incertezza.
Non è più una certezza il nostro lavoro, la nostra casa, la nostra vita. Non è più una certezza il dolce della domenica.
La ringhiera del ponte l'accarezzo ancora, nel mio percorso di mano obbligato, dentro quel ferro è racchiusa tutta la mia primavera.
Martina faceva la quinta elementare, viveva con la mamma ragazza madre, suo padre non lo aveva mai conosciuto. Il profumo di quella casa nella quale Martina viveva era di costante tenero garbo alimentare, a volte cioccolato, a volte sedano o cipolla, ragù, patatine fritte e quant’altro di buono poteva preparare nella fantasia culinaria la mamma Stefania. Martina adorava sua madre, giovane e bella, sempre di fretta per il suo lavoro di segretaria, piccola ma non eccessivamente grande, tenera e giocosa, sempre sorridente. Martina ricordava quel giorno quando poi la madre perse il lavoro e successivamente il suo amore, quell’ uomo che compariva e spariva, grande, con la barba, che portava sempre allegria e giocattoli. In quel tempo la primavera cominciò a farsi sentire, farfalle e margherite cambiarono la scenografia del campo la vicino, ma la cinghia intorno a quella parsimonia sempre più evidente a causa della scarsità di soldi, non rasserenava di certo quelle giornate. La mamma piangeva spesso, nell’angolo della camera, seduta sul letto, ma anche se negava i suoi occhi lucidi, Martina la vedeva e le faceva mille domande.
La quinta elementare stava finendo e intanto si avvicinava l’ultimo giorno di scuola, Martina era emozionata. La mamma le stava vicino, cercando di aiutarla per le ultime verifiche, anche perché le aveva promesso un dolce buonissimo da portare a scuola per la festa di fine anno scolastico. La bimba studiò così tanto che prese un giudizio strepitoso a seguito della sua ultima verifica di italiano, lei voleva quel dolce, il suo desiderio di far assaggiare la torta di mele della mamma ai suoi compagni di scuola era il suo obiettivo, la sua gioia.
Così il giorno prima della festa Stefania preparò una torta di mele enorme, impiegò tutto il pomeriggio per terminarla, comprò mele prelibate di prima scelta ed aggiunse tanta marmellata per renderla ancora più gustosa. Avendo ricominciato a lavorare da poco riuscì comunque a prendere un giorno di permesso per ottemperare alla promessa che aveva fatto alla sua bambina, la torta di mele. Il giorno dopo incartò la torta con carta verde, perché disse che il verde era il colore della speranza, un buon auspicio per le scuole medie, così fatto, accompagnò sua figlia a scuola tenendo con le due mani la grande torta. Con un sorriso enorme e con il fiatone la mamma e la bambina finirono di salire le due rampe di scale che conducevano all’aula scolastica già addobbata per la festa di fine anno e vi entrarono con la torta.
Nessuno dei bimbi esultò alla vista della grande torta incartata di verde, anzi, la maestra si fece avanti e chiese alla madre cosa contenesse quel pacco. La maestra, saputo del contenuto, gentilmente invitò la madre di Martina a non consegnare la torta. Il regolamento scolastico prevedeva per la condivisione di alimenti, cibi esclusivamente confezionati e non preparati a mano. Vani furono i tentativi della madre di Martina di spiegare che la torta era stata preparata con ingredienti freschi. La torta tornò indietro.
Martina iniziò a piangere, era incredibile che una torta del genere non potesse essere mangiata, quella torta preparata con tanto amore dalla mamma per tutti i bambini. La salutò con gli occhietti arrossati, ma la mamma sorridendo sempre, non mostrò alcun segno di imbarazzo tanto che se ne tornò a casa da sola con la grande torta sorretta con due mani con il sorriso di sempre. Quell’enorme pacco copriva i capelli biondicci della donna, le copriva lo sguardo, la visuale, la strada che attraversava.
Stefania urtò un ciclomotore parcheggiato male appena vicino al marciapiede, la torta cadde per terra sfilandosi dalla confezione, era così fresca che si disfece sull’asfalto. Subito dopo, il passaggio di un paio di automobili, resero tutta quella bontà una poltiglia sulla strada. Se ne tornò a casa, aprì la finestra e respirò profondamente, la vita doveva comunque continuare serena con la sua bambina, il suo cuore adesso batteva forte, la sua anima di piccola grande donna si mescolava tra gli odori di una nuova primavera.