Ci sono storie che abitano le nostre famiglie come presenze silenziose. Sono fatte di frammenti, di aneddoti sussurrati durante un pranzo di festa, di nomi incisi su vecchie fotografie. Non le trovate nei libri di storia, eppure sono state vite vere, pulsanti, cariche di sogni e di drammi. La storia del mio bisnonno, Pasquino – per tutti Pasquale – era una di queste. Per anni, è stata un'ombra nella memoria della mia famiglia, una figura definita più dalle sue assenze che dalle sue certezze.
Di lui si sapeva poco: che era un sarto tornato dalla Grande Guerra, che la sua vita era stata avvolta da una tragedia, che il suo destino si era compiuto troppo presto. Ma ogni volta che il suo nome affiorava nei racconti di mia madre o di mia zia, sentivo che dietro quel velo di tristezza c'era un'esistenza che gridava per essere raccontata, un'anima che chiedeva di non essere dimenticata.
Come regista e scrittore, ho sempre creduto che il nostro compito sia dare voce a ciò che rischia di perdersi nella polvere del tempo. E così, con la sensazione di rispondere a una chiamata, a un dovere intimo, ho deciso di intraprendere un viaggio a ritroso. Un viaggio per restituire a Pasquino la sua storia.
Il primo passo, il più prezioso, è stato sedermi con mia madre e mia zia, accendere un registratore e ascoltare. Le loro voci, a tratti incrinate dalla commozione, sono diventate la mia bussola. Ogni loro ricordo era un pezzo del mosaico: l'orgoglio per il lavoro di sarto, il racconto della sua bottega nel cuore di una Firenze inquieta, la descrizione di un uomo buono ma tormentato dalle cicatrici invisibili che la guerra gli aveva lasciato dentro. Quelle conversazioni sono state più di una semplice raccolta di dati; sono state un passaggio di testimone, un'eredità emotiva che mi ha investito di una grande responsabilità.
Ma le memorie familiari, per quanto potenti, non bastavano. Volevo capire il mondo che aveva visto Pasquale, l'aria che aveva respirato. Ho passato giorni interi nelle sale silenziose della Biblioteca Nazionale di Firenze, sfogliando i giornali di quel periodo, 1919-1920. Le cronache parlavano di scioperi, di tensioni sociali, di una miseria palpabile e della paura ancora viva della Spagnola, che aveva decimato intere famiglie. All'Archivio Storico, ho cercato il suo nome, una traccia ufficiale, un documento che potesse confermare i racconti.
Lentamente, Pasquino ha smesso di essere un fantasma. Ho iniziato a vederlo camminare per le strade di una Firenze che non c'è più, ho immaginato la sua fatica, le sue speranze, i suoi amori. Ricostruire la sua vita è stato come montare un film senza avere tutte le scene. I fatti storici erano l'intelaiatura, i ricordi familiari erano i dialoghi, ma per riempire i silenzi, per dare un'anima a quell'uomo, ho dovuto usare gli strumenti del romanziere. Ho dovuto immaginare i suoi pensieri, il battito del suo cuore, la stretta allo stomaco di fronte ai bivi della vita.
"L'ultimo fiore" è nato così, dal dialogo tra la memoria e l'immaginazione. È la storia di mio bisnonno, ma è anche la storia di tutte quelle "anime silenziose" di un'epoca inquieta, la cui vita non ha trovato spazio nei libri di storia. È il mio tentativo di saldare un debito, di restituire dignità a un'esistenza e di credere che nessuna vita, per quanto umile o tragica, vada veramente perduta finché c'è qualcuno disposto a raccontarla.
Spero che, leggendo la storia di Pasquale, possiate sentire anche voi il richiamo delle vostre radici e magari trovare la voglia di chiedere, di ascoltare, di preservare le storie uniche che rendono ogni famiglia un piccolo, irripetibile universo.