mercoledì 2 settembre 2015

La ringhiera del ponte

Passeggiavo con mia moglie a braccetto, lungo quella strada, era molto freddo ed indossavamo abiti molto pesanti. Mia moglie camminava alla mia sinistra, il nostro fiato evaporava in quella rigida atmosfera invernale e camminando ci scambiavamo qualche fugace sorriso. Tra di noi un dolce silenzio, lei era sempre stata un tipo silenzioso, con i suoi capelli biondini, eternamente giovane, col suo piccolo volto rosa dalla pelle delicatissima e quasi sempre arrossata dal freddo. Io ero avvolto dal mio grande cappotto oramai vecchio di oltre dieci anni e lei indossava un vestito marrone con un collo di pelliccia. Ambedue eravamo avvolti da una sciarpa, lei indossava il suo cappellino di lana ed io avevo il colbacco scuro, anch'esso molto vecchio, ma ancora utile. Era domenica mattina e non si lavorava, sposati da dodici anni, ogni domenica facevamo la stessa passeggiata. Purtroppo senza figli, soli, in un'esistenza fatta di sorrisi e carezze, ambedue figli unici senza più genitori. La nostra piccola, ma calda casa, le nostre tre piccole stanze, la nostra cucina oramai vissuta nella consuetudine giornaliera e nel rispetto dell'orario del pranzo e della cena, l'eterno odore di cipolla soffritta. Le nostre sedie, in legno, impagliate e ben conservate grazie alla meticolosità di mia moglie, mostravano, nonostante tutto, i segni di dieci anni di uso giornaliero, la paglia stava cedendo sfogliandosi. Il nostro piccolo bagno con la saponetta rosa sul lavandino, ed il nostro salottino con il divano in stoffa verde, ancora rivestito da un telo di colore avorio con i girasoli disegnati da una vecchia amica. Assaporavamo ogni domenica mattina la semplicità del nostro piccolo quartiere popolare, con quella strada grigia che tramite un ponte attraversava il fiume uscendo dagli ultimi isolati. La ringhiera di quel ponte, di colore marrone, fredda, l'accarezzavo quasi fosse un percorso di mano obbligato, così ne sentivo ogni volta le screpolature dello smalto deteriorato dal tempo. Era comunque una ringhiera di ferro massiccio, costruita per non distruggersi mai, per non essere mai sostituita. La nebbia, che nei nostri lunghissimi inverni regnava perenne, mi impediva, dal ponte, di notare l'enorme distesa campestre che si poteva mirare ogni volta che era sereno. Il nostro quartiere, la nostra vita, il nostro mondo con le nostre abitudini, che davano a me e a mia moglie una sicurezza ed una serenità incredibile. Al ritorno da quella passeggiata era sempre l'ora del pranzo, e la domenica, cucinavamo la carne, due belle fette di carne ed una minestra di verdure, poi la frutta ed il dolce fatto con le uova, buonissimo, che lasciava fino a sera quel profumo di vaniglia per tutta la casa. Il pomeriggio ascoltavamo la nostra radio, coricati sul divanetto, con il programma di musiche popolari, lei con il suo capo biondo reclinato su di me nel suo leggero sonno, con la pelle profumata di saponetta, io con le sue mani nelle mie, le sue piccole mani, così esili, ma provate dal tempo e dal bucato fatto a mano nella piccola vasca da bagno, quel bucato che fresco ogni giorno indossavo. Quel giorno, come mille altri, assaporavamo i nostri piaceri, come per rito, nell'essenza di una vita semplice, ma sicura, nel calore del nostro piccolo grande mondo. Eravamo felici e complici nel degustare ogni cosa, dal piccolo quadretto con le piramidi sistemato nell'ingresso, al dolce della domenica. Ma più che altro vi era la sicurezza di avere un lavoro che ci teneva impegnati tutti i giorni e l'essere coscienti che quel lavoro non era una condizione, ma una partecipazione attiva. Il nostro lavoro, la nostra piccola casa, la nostra vita. Oggi tutto questo è un'incertezza. Non è più una certezza il nostro lavoro, la nostra casa, la nostra vita. Non è più una certezza il dolce della domenica. La ringhiera del ponte l'accarezzo ancora, nel mio percorso di mano obbligato, dentro quel ferro è racchiusa tutta la mia primavera.